17 novembre 2011

LA COMPASSIONE

Vi propongo un video di Joan Halifax, insegnante di dharma che da anni si dedica alle persone nello stadio terminale della loro vita (sia nelle case di cura che in prigione, nel braccio della morte). Racconta ciò che ha imparato sulla compassione quando si affronta la morte, approfondendo il significato e la natura dell'empatia.



 


Traduzione

"Voglio parlarvi della compassione, La compassione ha molti volti. Alcuni fieri, altri adirati; alcuni teneri, altri saggi. Un giorno il Dalai Lama disse queste parole: "Amore a compassione sono delle necessità. Non un lusso. Senza di essi l'umanità non può sopravvivere." E aggiungerei, non sarebbe solo l'umanità a non sopravvivere, ma anche tutte le specie viventi, come abbiamo già ascoltato oggi. I grandi felini, il plancton.

Due settimane fa mi trovavo a Bangalore, in India. Ho avuto il privilegio di insegnare in una casa di cura alla periferia di Bangalore. Di buon mattino sono entrata in reparto. Nella casa di cura c'erano 31 pazienti, uomini e donne, nello stadio terminale della vita. Sono andata al capezzale di un'anziana che respirava molto velocemente, fragile, evidentemente prossima alla morte. L'ho guardata in volto. Ho guardato il volto di suo figlio che le sedeva accanto, lacerato da un misto di mestizia e confusione.

E mi sono ricordata di una frase del Mahabharata, il grande racconto epico indiano: "Qual è la cosa più stupefacente del mondo, Yudhisthira?" E Yudhisthira rispose: "La cosa più stupefacente del mondo è che tutt'intorno a noi la gente muore e noi non ci rendiamo conto che può capitare anche a noi." Guardai in alto. Ad assistere quelle 31 persone c'erano giovani donne dai villaggi attorno a Bangalore. Guardai il volto di una di esse, e vi vidi la forza che nasce quando c'è vera compassione. Osservai le sue mani mentre lavava un'anziana.

E posai lo sguardo su un'altra giovane che detergeva il volto di un anziano morente. E questo mi ricordò di qualcosa a cui mi era capitato di assistere. Ogni anno o giù di lì ho il privilegio di recarmi in missione nell'Himalaya e negli altipiani del Tibet. Gestiamo cliniche in queste regioni remote in cui c'è assoluta carenza di assistenza medica.

Il mio primo giorno al Simikot ad Humla, estremo Nepal occidentale, la regione più povera del Nepal, entrò un anziano che portava un fagottino di cenci. Entrò, qualcuno gli disse qualcosa, capimmo che era sordo, allora cercammo tra i cenci, ed emersero due occhi. Togliemmo i cenci, che avvolgevano il corpo di una bambina con il corpicino devastato dal fuoco. Di nuovo, gli occhi e le mani di Avalokiteshvara. Fu la giovane assistente che ripulì le ferite della bimba e le medicò.

Conosco quelle mani e quegli occhi; hanno toccato anche me. Mi hanno toccato in quel momento. Mi hanno toccato durante i miei 68 anni di vita. Mi hanno toccato quando avevo 4 anni e avevo perduto la vista ed ero rimasta parzialmente paralizzata. E così la mia famiglia fece venire una donna, la cui madre era stata schiava, per prendersi cura di me. E quella donna non era spinta da compassione sentimentale. Aveva una forza incredibile. E fu proprio quella forza, credo, che divenne lo stimolo che ha illuminato il mio cammino.

Dunque ci possiamo chiedere: Da cosa è formata la compassione? Ci sono varie sfaccettature. C'è compassione referenziale e non referenziale. Ma innanzitutto la passione comprende la capacità di vedere chiaramente la natura della sofferenza. E' la capacità di restare forti e di riconoscere anche che io non sono separato da quella sofferenza. Ma non è abbastanza, perché la compassione, che attiva la corteccia motoria, vuol dire che noi aspiriamo, veramente, a trasformare la sofferenza. E se abbiamo la grazia di poterlo fare, intraprendiamo attività che trasformano la sofferenza. Ma la compassione ha un'altra componente, e questa componente è davvero essenziale. La componente è che non ci possiamo attaccare al risultato.

Ora, io ho lavorato con persone morenti per più di 40 anni. Ho avuto il privilegio di lavorare nel braccio della morte di un carcere di massima sicurezza per 6 anni. E ho capito così chiaramente nel portare l'esperienza della mia vita, nel lavorare con persone in punto di morte e con la formazione degli assistenti, che ogni attaccamento al risultato avrebbe profondamente distorto la mia capacità di essere pienamente presente alla catastrofe che avevo davanti.

E quando ho lavorato nel sistema carcerario mi è stato chiaro questo: che per molti di noi in questa sala, e per quasi tutti gli uomini con cui ho lavorato in carcere, il seme della propria compassione non è stato mai irrigato. La compassione è di fatto una qualità innata nell'uomo. Tutti noi la possediamo. Ma le condizioni per poterla attivare, farla crescere, sono particolari. Quella condizione si è creata in me, fino a un certo punto, grazie alla malattia della mia infanzia. Per Eve Ensler, che parlerà più tardi, quella condizione è stata attivata in modo straordinario dalle tante acque della sofferenza che ha attraversato.

E la cosa affascinante è che la compassione ha dei nemici, cose come la commiserazione, la violenza morale, la paura. E sapete, la nostra società, il mondo, sono paralizzati dalla paura. E quella paralisi, naturalmente, paralizza anche la nostra capacità di provare compassione. La parola 'terrore' è globale. Il sentimento di terrore è globale. Per cui il nostro lavoro, in un certo senso, è di scalzare questa immagine, questo archetipo che ha pervaso la psiche del globo intero.

Ora sappiamo dalle neuroscienze che la compassione possiede alcune qualità davvero straordinarie. Per esempio: Una persona che coltiva la compassione, quando si trova in presenza della sofferenza percepisce la sofferenza in modo molto maggiore di molte altre persone. Ad ogni modo riesce a tornare alla normalità molto rapidamente. Questo si chiama determinazione. Molti di noi credono che la compassione ci inaridisca, ma vi garantisco che è qualcosa che ci illumina veramente.

Un'altra cosa sulla compassione è che fa aumentare la cosiddetta integrazione neurale. Coinvolge tutte le aree del cervello. Un altro fatto, scoperto da vari ricercatori dell'Emory e del Davis e di altri centri, è che la compassione rafforza il nostro sistema immunitario. Ehi, viviamo in un mondo molto nocivo. (Risate) Molti di noi deperiscono per via dei veleni psico-sociali e fisici delle tossine del nostro mondo. Ma la compassione, la generazione di compassione, rimette in moto proprio le nostre difese immunitarie.

Sapete, se la compassione ci fa bene, ho una domanda. Perché non educhiamo i nostri figli alla compassione? (Applausi) Se la compassione ci fa così bene, perché non la insegniamo al personale sanitario cosicché riescano a fare quello che ci si aspetta da loro, cioè trasformare veramente la sofferenza? E se la compassione ci fa tanto bene, perché non la votiamo? Perché non votare i politici sulla base della compassione? In questo modo avremmo un mondo in cui ci si prende più cura degli altri. Nel Buddhismo diciamo: "ci vogliono una schiena forte e un aspetto delicato ." Ci vuole una forza tremenda nella schiena per rimanere in equilibrio in mezzo al caos. Questa è la qualità mentale dell'equanimità.

Ma ci vuole anche un aspetto delicato - la capacità di accettare il mondo così com'è, di avere un cuore senza difese. E l'archetipo di questo nel Buddhismo è Avalokiteshvara, Kuan-Yin. Un archetipo femminile: colei che riceve le grida dell'umanità sofferente. Possiede 10.000 braccia, e in ogni mano porta uno strumento di liberazione, e nel palmo di ogni mano ci sono occhi, che sono gli occhi della saggezza. Io dico che per migliaia di anni le donne hanno vissuto, esemplificato, incontrato nella loro intimità l'archetipo di Avalokiteshvara, di Kuan-Yin, colei che sente le grida dell'umanità sofferente.

Le donne hanno manifestato per migliaia di anni la forza che deriva dalla compassione in modo non meditato, senza filtri, nel percepire la sofferenza così com'è. Hanno profuso gentilezza nella società, e noi lo abbiamo potuto constatare nelle donne che mi hanno preceduto su questo palco in questa giornata e mezza. Esse hanno messo in pratica la compassione attraverso l'azione diretta. Jody Williams ha detto: meditare fa bene. Mi dispiace, devi farne un po' anche tu, Jody. Fa' un passo indietro, lascia tranquilla tua madre, ok.

(Risate)

Ma l'altro termine dell'equazione è che dovete uscire dalla vostra caverna. Dovete uscire nel mondo come fece Asanga, che cercava di realizzare il Maitreya Buddha dopo 12 anni di eremitaggio in una caverna. Disse: "Me ne vado da qui." Si incammina per il sentiero. Vi vede qualcosa. Guarda, è un cane, e gli si inginocchia davanti. Vede che il cane ha una brutta ferita sulla zampa. La ferita è piena di larve. Egli usa la propria lingua per rimuovere le larve, in modo da non ucciderle. E in quel momento il cane si trasformò nel Buddha dell'amore e della gentilezza.

Io credo che le donne e le ragazze di oggi debbano fare squadra in modo potente con gli uomini - con i padri, i figli, i fratelli, gli idraulici, i costruttori di strade, gli assistenti sanitari, i dottori, gli avvocati, con il nostro presidente, e con tutti gli esseri. Le donne presenti in sala sono dei fiori di loto in un mare di fuoco. Che possa questa capacità diventare realtà per le donne di tutto il mondo.

Grazie".

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